A Fabiola,
che ha la mente masochista quanto la mia.
Preso Blu
“Paura del diverso, paura del possibile, paura che diverso sarebbe anche possibile.”
Subsonica, Preso Blu
È facile perdersi.
Ci si perde guardando l’azzurro intenso di un celo terso. Ci si perde osservando le onde del mare morire sulla spiaggia oppure guardando la nebbia salire dalle vallate mentre si è in cima ad un monte. Ci si perde fissando una parete bianca, oppure ammirando le esplosioni di colori di un quadro di Turner. Ci si perde guardando il rubinetto della doccia mentre l’acqua cade sul viso o guardando il mondo scorrere freneticamente fuori dal finestrino di un’auto. Ci si perde negli occhi di una donna, o in quelli di un uomo.
Ci si perde vedendo la tomba della propria madre.
Capita, è inesorabile; tutti ci siamo persi nella nostra vita. Alcune persone si perdono in continuazione, anche più di una volta in un giorno, per poi ritrovarsi subito, altre invece si sono perse una sola volta nella vita, senza mai ritrovare la strada di casa.
Non ce ne accorgiamo, semplicemente ci perdiamo. Ed ha un sapore dolce lo smarrimento, anche quando sembra dilaniarci l’anima. Perché? Perché quando sei perso non devi più lottare. Quando sei perso non devi più faticare, non devi più fare il minimo sforzo. Stai lì, in balia della corrente, a farti trascinare e cullare alla deriva dalle dolci onde dell’abbandono.
Paolo si era perso. Dentro di sé lo ha sempre saputo, fin dal giorno in cui vide entrare la bara di sua madre dentro il loculo nella tomba. Ma lo realizzò un pomeriggio di agosto, mentre faceva il bagno in mare. Era in acqua che galleggiava steso a pancia in su, lasciandosi trasportare dal mare e fissava il cielo azzurro sgombro da ogni nuvola. Fuori dall’acqua uscivano soltanto il suo busto, la bocca, il naso e gli occhi. Tutto il resto era completamente immerso. I suoni gli arrivavano ovattati e confusi, anche se a tratti riusciva a distinguerne qualcuno con chiarezza, come il rumore del motore di qualche barca in lontananza o il conficcarsi nella sabbia di qualche ombrellone.
Fissava il cielo e la sua mente pian piano veniva risucchiata in quell’azzurro infinito, fino a quando qualcosa scattò in lui: “che cazzo ne sto facendo della mia vita?” pensò. E in quel momento la sua mente partì come un corridore dei cento metri alle olimpiadi. Quel pensiero era stato lo sparo che dà il via alla gara, e ora stava correndo come un pazzo sulla pista dura e rossastra dei pensieri.
Si chiese se avesse mai raggiunto un obbiettivo prefissato, o tutti erano andati a farsi fottere come l’ultimo, giusto quella mattina. Due settimane prima aveva fatto un colloquio di lavoro a Monaco di Baviera per il posto da sviluppatore informatico in un’azienda che produce software per macchinari di diverso tipo. Era il decimo colloquio che faceva e quella mattina aveva ricevuto la chiamata dell’azienda che gli comunicava che non aveva ottenuto il lavoro. Dieci colloqui, tutti falliti. Cinque in Italia, uno in Spagna, a Valencia, uno a Londra, due in Francia (Lione e Marsiglia) e infine quello in Germania. Tutti lo avevano rifiutato. Si chiese in che cosa sbagliasse, perché non riuscisse ad ottenere ciò che voleva. Si era laureato in informatica e quello che desiderava fare era lo sviluppatore informatico. Voleva far parte di uno dei team che creano e sviluppano nuovi software per le più svariate cose, dalla macchinetta del caffè al satellite della NASA. Voleva poter creare. Aveva considerato l’idea di fare qualcosa in proprio nel mondo delle applicazioni per cellulari, ma non aveva abbastanza esperienza e coraggio per avviare un progetto del genere dalle prospettive così incerte. Così cercò in giro annunci per quello che gli interessava fare. Iniziò a mandare curriculum a qualsiasi azienda avesse un reparto di sviluppo informatico. Stampò ed inviò più di sessanta curriculum in giro per il mondo. In dieci lo chiamarono e in dieci lo stroncarono. Perché? Era quello che si stava chiedendo. Quella mattina, dopo la chiamata da Monaco si sentì soffocare e decise di uscire subito di casa, prendere la macchina ed evadere dalla città per un giorno. Dopo due ore e mezza di auto e una sosta all’autogrill per pranzare arrivò al mare. Comprò un costume e un asciugamano in uno dei negozi vicino alla spiaggia, si cambiò e si buttò in acqua.
Si era sentito in trappola. Da due anni aveva trovato lavoro come tecnico informatico in un negozio di elettronica. Era un buon posto, con una buona paga e attinente con ciò per cui aveva studiato, ma non era quello che voleva fare. Ogni volta che entrava in quel negozio aveva la sensazione di entrare in un carcere. Sapeva che non poteva lamentarsi, in quanto un lavoro (ben pagato, per giunta) è pur sempre un lavoro, ma si sentiva in diritto di sentirsi infelice, di sentirsi soffocato. Aveva visto in quei colloqui una via d’uscita.
“Perché non ottengo mai quello che voglio?” pensò mentre si trovava disteso sulla superficie dell’acqua. E i suoi pensieri si spostarono dal lavoro al volto di una donna dalla carnagione scura, occhi color nocciola e capelli rosso scuro in cui si inizia a intravvedere la ricrescita nera alla base. L’ultima volta che l’aveva vista è stato al compleanno di una sua amica. Stava baciando un altro uomo.
La festa si svolgeva a casa della festeggiata, Maria. Ha un appartamento all’ultimo piano in periferia, con due terrazze, una grande da cui si accede dal salotto e una più piccolina dall’altro lato dell’appartamento dove c’è la cucina.
Paolo era arrivato da dieci minuti. Gli venne voglia di fumare, così si diresse nel terrazzo più piccolo per non fumare in quello grande, che era affollato dagli altri invitati. Aprì la porta-finestra, uscì sulla terrazza, si mise la sigaretta in bocca e l’accese. Si girò sulla sinistra, alzò lo sguardo e li vide. Erano nell’angolo della terrazza, lei con un vestito nero, chiuso davanti e con un’ampia scollatura sulla schiena, lui con un classico paio di jeans e una camicia bianca. Aveva le mani una a metà schiena di lei, e l’altra ben salda sulla natica destra. Le braccia di lei erano strette dietro il collo di lui. Le loro bocche non si riuscivano a distinguere. Non si accorsero di lui.
Rimase a fissarli imbambolato per qualche secondo, poi butto la sigaretta a terra e se ne andò. Ritornò in salotto, prese un bicchiere del primo alcolico che trovò e si sedette su una sedia nell’altra terrazza, in mezzo a tutti gli altri invitati, in solitudine.
Sarebbe potuta essere sua, e ora invece è di qualcun altro. L’aveva inseguita da tempo, ma sul più bello non ha mai avuto il coraggio di fare il passo decisivo. Eppure le occasioni ci sono state, ma il più delle volte ha avuto paura. La vecchia storia di migliaia di ragazzi e ragazze.
“Perché sono così fottutamente pauroso? Perché non oso di più?” si chiese, mentre una dolce corrente lo cullava.
Gli vennero in mente gli anni dell’università, in particolar modo gli tornò in mente l’estate passata a Barcellona con un suo compagno di corso e degli amici di lui. Aveva risparmiato sei mesi per quella vacanza. Erano un gruppo di dieci persone e Paolo conosceva solo Pietro, il suo compagno di corso. Tutti gli altri erano amici del liceo di Pietro. Non si ricordò come si ritrovò lì in mezzo, ma fu un’esperienza piuttosto bizzarra.
Di quei giorni gli sovvenne una sera in particolare, in cui dopo cena si misero a preparare un narghilè sulla terrazza della casa che avevano preso in affitto. Si misero in cerchio e tra una boccata e l’altra ognuno raccontò le proprie esperienze e le proprie avventure. Scoprì che gli unici ad andare all’università in quel gruppo erano lui, Pietro e Marika, una delle quattro ragazze. Tutti gli altri lavoravano, e ciò che guadagnavano lo spendevano in viaggi e divertimenti di vario genere. A ventidue anni avevano vissuto più di quanto Paolo sperasse di vivere in tutta la sua vita. Rimase angosciato di ciò. Lui per fare quella vacanza (la prima da tre anni) aveva fatto sacrifici per racimolare soldi, e quelle due settimane gli sembravano la vetta del monte Everest, qualcosa di fuori dal normale. Sentire che per altri non era che un viaggio come un altro, che avevano vissuto di meglio, lo atterrì profondamente, specialmente perché a fare quei discorsi non erano state persone con svariati anni in più alle spalle e anni di lavoro e risparmi, ma suoi coetanei.
Quella notte non dormì, rimase per molte ore con gli occhi aperti a fissare il soffitto. Si chiese perché avesse scelto di studiare invece di andare a lavorare fin da subito, se il percorso scelto lo avrebbe portato a qualcosa, se avrebbe mai avuto una vita felice e soddisfatta, se…
Si era perso già quella notte.
Il lamento in lontananza di un bambino lo distolse brevemente dalle sue elucubrazioni, ma vi si reimmerse subito. “Ora i soldi per fare viaggi li ho, potrei prendere e partire, ma…” ma i soldi servono per il futuro. Da quando aveva iniziato a lavorare Paolo non avevo toccato praticamente nulla di ciò che aveva guadagnato, se non il minimo indispensabile per vivere quotidianamente. Perché? Perché voleva comprarsi un appartamento tutto suo, così da non dover più vivere con suo padre e la compagna, voleva rendersi indipendente, voleva anche mettere da parte i soldi per poter magari aprire un giorno una sua azienda di software. Progetti, progetti per il futuro che chissà se mai si avvereranno.
“Se solo osassi di più…”
Una vespa gli passò davanti agli occhi e li chiuse di scatto. Il passaggio dall’azzurro ipnotico del cielo al buio del retro delle palpebre lo scombussolò un attimo. Tenne gli occhi chiusi e riprese a pensare.
“Non ho un lavoro soddisfacente, non ho una ragazza, non ho sicurezze sul futuro e punti fermi nel presente. Non ho convinzioni, anzi, non ne ho mai avute, mi sono sempre mosso per inerzia, seguendo quello che sembrava più logico e più sicuro seguire. Che cosa ho?”. In quel momento, da una parte remota di Paolo, una voce diversa da quella che finora aveva formulato i pensieri insorse con indignazione: “Te stesso!”.
Paolo si sorprese di quella risposta. “Cosa vuol dire me stesso?” chiese a quella voce interiore.
“Te stesso è l’unica cosa che tu possiedi, ed è anche l’unica cosa che potrai mai veramente possedere. È l’unica cosa che tutte le persone possono realmente possedere.” Rispose la voce con la stessa indignazione di prima. “Ti stai perdendo nei pensieri Paolo. Futili pensieri. Continui a chiederti perché non hai ottenuto quello o se mai otterrai quell’altro, ma nella vita l’unica cosa che certamente puoi avere e te stesso. Il mondo è in continuo mutamento, è normale non riuscire a raggiungere traguardi prefissati in passato. Quando si insegue qualcosa bisogna accettare l’eventualità che non si riesca a raggiungere. Ed è più probabile fallire che riuscire nei propri intenti, ma ciò non vuol dire che bisogna bloccarsi nel fallimento. Se ottieni qualcosa bene, se non la ottieni, amen, ti fissi un altro obbiettivo e inizi una nuova corsa. Bloccandoti nei fallimenti non fai altro che perdere anche l’unica cosa che tu che possiedi veramente, te stesso. Si, perché bloccandoti alieni il tuo spirito in uno stato apatico-depressivo, e ciò non fa che portarti in un circolo vizioso, non facendoti avanzare.”
“Si, belle parole. La fai facile tu…”
“Non ho detto sia facile. Se lo fosse non saresti qui a discutere come un pazzo nella tua mente. È difficile, ma per quanto lo sia, è ciò che bisogna fare. Fallisci? Sticazzi, vai avanti. Prenditi quel poco che basta per analizzare il fallimento e poi vai avanti. Fatti coraggio e avanza!”
“Coraggio… come se ne avessi.”
“Certo che ne hai!”
“Ma se tutta la mia vita l’ho passata a rinunciare alle cose per paura di fallire, ad inseguire la strada più sicura…”
“No Paolo. Tu hai semplicemente scelto una strada e hai scelto di seguirla fino in fondo senza abbandonarla. Ci vuole più coraggio a mantenere la propria rotta dentro una tempesta, che virare verso oasi appariscenti.”
“Forse hai ragione”
“Togli il forse. Non perderti, ritrova te stesso, perché senza di esso non sei che un naufrago alla deriva. Tutto ciò che sta nel mondo, al di fuori di te, cambia in continuazione e non possiamo conoscere e possedere ogni suo cambiamento, ma il tuo io lo puoi conoscere, comprendere, possedere. Anche tu cambi, come ogni cosa, ma a differenza del resto, sperimenti il tuo cambiamento in prima persona, sei tu stesso il cambiamento. Ritrovati, e non perderti.”
Aprì gli occhi di scatto e la luce del sole lo accecò. Si rimise in posizione eretta e si accorse che i suoi piedi non toccavano più il fondo del mare. Appena gli occhi si riabituarono alla luce, vide che si era allontanato un bel po’ dalla riva. “Per quanto sono rimasto a galla? Devo essermi assopito.”
Nuotò fino a riva, uscì dall’acqua e si asciugò. Andò in macchina dove si rivestì. Si girò e guardò il mare, poi mise in moto e partì per tornare in città. Il giorno dopo doveva tornare a lavoro, doveva andare avanti.