Oggi è il 3 giugno 2017. Per molti questa data non dirà niente, per altri invece avrà un significato particolare e già domani potrà essere ricordata con gioia, oppure con immensa tristezza. Oggi è il 3 giugno 2017, e a Cardiff, alle ore venti e quarantacinque, si giocherà la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid.
Per me oggi è un giorno più che particolare. Oggi sono tornato ad avere dieci anni.
Il 28 maggio del 2003 avevo dieci anni e mi accingevo a finire le scuole elementari. Quella sera si giocava la finale di Champions tutta italiana: Juventus – Milan. Erano giorni felici quelli. Giorni in cui il problema più grande che potessi avere era non riuscire a fare un esercizio di matematica, e all’epoca ero molto bravo in matematica, cosa che chi mi ha conosciuto al liceo farà difficoltà a credere.
Era un mercoledì e la mattina a scuola la passai con la testa completamente alla partita. Mi immaginavo le azioni, i gol e tutti gli scenari che mi venivano in mente. Mi immaginavo la vittoria trionfale, mi immaginavo di avere una decina di anni in più e di giocare quella partita da titolare, di segnare il gol vittoria, di essere portato in braccio dalla folla in delirio. Avevo dieci anni. Mi immaginai anche la sconfitta, una sconfitta catastrofica, quattro a zero per il Milan, con doppietta di Sheva e doppietta di Inzaghi, ma mai immaginai di poter perdere ai rigori, dopo un risultato di parità senza reti alla fine dei tempi supplementari. Eppure era forse prevedibile che finisse ai rigori quella partita, ma per me era o tutto, o niente. O vittoria clamorosa, o disfatta assoluta. Ancora oggi penso che avrei preferito perderla quattro a zero, piuttosto che in quel modo, a pochi metri dalla vittoria, undici metri per l’esattezza.
Il giorno sembrava non passare. Il pomeriggio, finiti i compiti, mi accorsi che mancava ancora mezza giornata alla partita, un’eternità. L’ansia era a mille. Nell’attesa andai a controllare che l’occorrente per la partita ci fosse tutto. Si trattava di quattro oggetti indispensabili per vedere la partita: la sciarpa della Juve, un braccialetto bianco e nero, un ciondolo portafortuna e la maglia della scuola in cui andavo. Erano gli stessi oggetti con cui avevo visto la semifinale di ritorno, vinta per tre a uno, proprio contro il Real Madrid.
Nella mia mente erano quei quattro oggetti che ci avevano portato alla vittoria. La sciarpa era la compagna di tutte le partite, allo stadio, al bar o a casa, era sempre attorno al mio collo. Me l’aveva regalata un amico di mio padre, juventino sfegatato, qualche anno prima. Il braccialetto me lo ero fatto comprare in cartoleria dopo settimane di pressing asfissiante. Il ciondolo era uscito dall’uovo di pasqua. Era un ciondolo brutto, a forma di croce greca. Non mi piaceva particolarmente, ma lo indossavo la sera della semifinale e durante la partita lo stringevo forte come un amuleto magico. Infine, la maglia della mia scuola era frutto di un evento che stava accadendo nell’istituto. Nella mia scuola, come nella maggior parte delle scuole elementari, c’era l’obbligo di indossare il grembiule blu o azzurro e nessuno poteva mettere altro. In quel periodo però, non ricordo più per quale motivo, ci avevano consegnato delle magliette blu con sopra scritto il nome della scuola in bianco e le maestre, in via eccezionale per alcuni mesi, ci avevano dato la possibilità di sceglie se indossare il grembiule o la maglietta. Ovviamente tutti scegliemmo la maglietta. Io avevo preso l’abitudine di indossarla ovunque quella maglia, pure a casa. E la indossavo pure la sera della semifinale.
In camera controllai se la roba ci fosse tutta. La sciarpa c’era, il braccialetto pure, la maglia l’avevo addosso e il ciondolo… il ciondolo non c’era. Il panico mi pervase. Lo cercai ovunque, misi a soqquadro la camera, ma niente. Setacciai ogni angolo della casa, con scarsi risultati. Nella mia mente oramai un solo scenario era sopravvissuto: doppietta di Shevchenko e di Inzaghi. Quella finale iniziava già con brutte notizie, visto l’assenza per squalifica di Pavel, in più avevo perso il ciondolo. Il destino era scritto.
Arrivato il momento della partita il mondo intorno a me scomparse. Esistevamo solo più io e la televisione, uno di fronte all’altra. Io ero seduto sul pavimento, gambe incrociate, mani strette attorno alla sciarpa. Non mi ricordo molto di quello che accadde durante la partita, era come se mi trovassi in un’altra dimensione. Ricordo bene il fischio di inizio, e il rigore vittorioso di Sheva. Fu quello a riportarmi alla realtà, fu quello a spegnere ogni mia illusione. Fu quello ad insegnarmi per la prima volta cosa volesse significare veramente il termine “delusione”, fino a quel momento conosciuto solamente per definizione.
Oggi mi sento di nuovo quel bambino di dieci anni, anche se forse non è propriamente così. È più corretto dire che oggi vorrei sentirmi come quel bambino di dieci anni. Quella spensieratezza, quella leggerezza nel vivere, tempi passati che non torneranno più.
Ma per novanta minuti, quelle sensazioni possono rinascere. Per novanta minuti il mondo rimane fuori. Per novata minuti puoi tornare ad essere un bambino di dieci anni.
E oggi c’è voglia di rivalsa. Quella voglia che due anni fa ha provato ad emergere per essere brutalmente ricacciata nell’entroterra delle viscere. Quella voglia di gridare per una notte contro il mondo, fottendosene di tutto il resto.